Mostra alla Art Makers Gallery – Stooccolma – Aprile 2004
Exhibition at Art Makers Gallery – Stockholm – April 2004
Borderline
Nella montagna incantata, Thomas Mann, ci racconta che la parola è civiltà. Che la parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto. E che è il silenzio, che isola.
Con gli ultimi lavori Kadhum, sembra sottolineare quest’aspetto, proponendo delle opere il cui segno significa sé stesso, ma contemporaneamente è aperto ad interpretazioni simboliche che lo rendono universale, un segno che parla e che resta in contatto con la realtà.
Attraverso l’uso di segni-parole, segni-scrittura, che riconosciamo come parte d’alfabeti, anche diversi, e la loro combinazione con materiali e materie eterogenee, Kadhum ci conduce per mano attraverso un sentiero che parla del linguaggio dell’arte (dalle parole in libertà futuriste alla poesia visiva), ma anche dell’impegno dell’artista come protagonista e voce del suo tempo.
Queste sono opere da “leggere”, da “sfogliare” come un buon libro, opere narrative direttamente collegate con la realtà, che non è solo quella dell’arte e della riflessione artistica, ma soprattutto della politica e della socialità. Direi la realtà del quotidiano e della relazione.
Nel suo cammino quasi iniziatico, attraverso il mondo della parola,Kadhum ci propone delle visioni del mondo mediate da uno sguardo purificatore. Per questo, per il suo lavoro si può parlare di rito, anche se più alchemico che religioso, un rito che si proietta direttamente nella storia, per parlare della nostra storia.
Nell’installazione extempore BAGHDAD, ad esempio, realizzata con cemento, carbone e macerie, la scritta in arabo del nome della città, posta in negativo all’interno del materiale, è carbone che brucia ed arde come segno della memoria collettiva risvegliata, e come apotropaico esempio di una magica virtù, atta a liberare dalle avversità, ma anche monito e indicazione all’attuale ostilità che ne segnerà il destino. Il fuoco che arde è qui metafora del fuoco interiore che lega con la passione, con il pathos, l’emozione e il furore creativo dell’artista, che controlla il furore irrazionale della storia. Come un novello Zoroastro, Kadhum, costruisce la sua moderna ara, e ci rende coopartecipi della cerimonia della possibile salvezza. Cerca il contatto per mostrarci la salvezza che forse passa dall’arte e dalla bellezza. Sicuramente dall’impegno comune e dalla denuncia. Dal verbo solidificato.
Così in FRAGILE, due proiettili, segnano indelebilmente la pellicola trasparente del plexiglas e in WORLD il fuoco segna il bordo (siamo sempre borderline…) delle lettere, mangiandosi così quelli che sono idealmente i confini delle nostre relazioni, segnando per sempre il contatto. Con la parola scritta Kadhum si predispone alla comunicazione, ed usandola di seconda mano, quindi già mediata, da una testata giornalistica, ci dice che quell’inchiostro ci può portare ancora altrove.
Rimbaudianamente dichiara che l’io è un altro e manifesta letteralemente con IO e le sue 13 traduzioni, (che sono sempre tradimenti…ognuno è altro da sé), che sotto le parole si nasconde una vittima, l’immagine.
Con lo specchio e la sua duplicità, Kadhum ti accoglie così all’interno dell’opera per farti partecipe di un rito, perché alla fine ci ri-conosciamo nell’io collettivo e diventiamo a nostra volta immagine riflessa, immagine espressione, come novelli narcisi. Ma la nostra Vanitas è qui messa magistralmente fuori gioco (come nei volti negati delle donne ) e il nostro riflesso, uguale ma diverso nella babele dei significanti e significati, rappresenta il luogo in cui lo sguardo incontra la morte.
Esprimere le idee con la forza del simbolo. Cercare la verità dietro le apparenze. Proporre il frammento come esempio di complessità. Recuperare nel disordine, l’ordine morale.
Ecco alcune tappe che ravviso nell’opera di Kadhum, personaggio eclettico abituato a trasformare le cose in contatti e a trasformare in dialettica e voce il nostro sguardo silenzioso.
La componente tipografica e ideogrammatica dell’opera di Kadhum quindi è una scusa per generare un diario visivo, in cui raccontare, forse anche con una vena di malinconica apprensione che rende melodrammatico il lavoro, tutta la complessità del quotidiano e la nostra voglia di scalare la cima e di rimanere a galla.
Luca Scarabelli